L’islam cerca la «parola comune»

Intervista

È l’unico italiano tra i 138 «saggi» che hanno firmato la lettera dei musulmani alle Chiese. Ed è uno dei 5 incaricati di preparare l’incontro col Papa: «Un evento che farà crescere la sensibilità interreligiosa tra le genti del Corano». Parla Yahya Pallavicini

DI GIORGIO PAOLUCCI

È uno dei cinque «saggi» musulmani che tra pochi giorni si recherà in Va­ticano per preparare, insieme ad al­trettanti esponenti cattolici, l’incontro con il Papa. Ed è l’unico italiano tra i 138 fir­matari della lettera scritta a Benedetto X­VI e ai responsabili delle Chiese cristiane il 13 ottobre 2007. Yahya Pallavicini, vice­presidente della Coreis e imam della mo­schea al-Wahid di Milano, mostra ottimi­smo sulle opportunità di dialogo che si so­no aperte, anche se non nasconde le dif­ficoltà. Comprese quelle legate alle diffe­renze di vedute e alle divisioni presenti nella umma islamica. Divisioni che lui, pe­raltro, è da tempo abituato ad affrontare, nella battaglia che da tempo sta condu­cendo per la creazione di un islam «italia­no », capace di convivere con la modernità e con i principi che fondano l’Occidente, come documenta nel suo recente libro «Dentro la moschea», edito da Rizzoli.

La risposta della Santa Sede al vostro ap­pello – «Una parola comune tra noi e voi» – indica alcuni terreni su cui sviluppare il confronto: «Il rispetto per la dignità di ogni essere umano, la conoscenza ogget­tiva della religione dell’altro, la condivi­sione dell’esperienza religiosa e l’impe­gno comune a promuovere mutuo ri­spetto e accettazione». Queste parole chiamano in causa temi cruciali come la strumentalizzazione a fini politici della religione e il terrorismo.

 «L’iniziativa dei 138 sapienti musulmani parte dalla consapevolezza diffusa di do­ver rinnovare – all’interno della nostra co­munità e con i cristiani – un dialogo basato sul principio dell’amore, l’amore per Dio e per tutte le creature. Solo se questo pre­varrà nei cuori e nei dialoghi tra credenti si potranno risolvere meglio le derive in­terne ed esterne che attaccano l’identità dei fedeli. Allora sarà ancora più chiaro a tutti che la falsità e la violenza dialettica, ideologica e armata del terrorismo è ‘fuo­ri’ da ogni cultura, civiltà, religione».

La lettera dei 138 fa riferimento anche al­la libertà religiosa. Questo comprende la possibilità di rinunciare alla fede islami­ca e di aderire a un’altra confessione? «Personalmente sono assolutamente con­vinto che la libertà di coscienza e di scel­ta religiosa sia una priorità, un bene da tu­telare e da promuovere. Non nascondo che tra i firmatari della lettera indirizzata al Papa ci siano su questo aspetto sensibilità diverse. E peraltro il nostro gruppo può solo svolgere una funzione di stimolo e sensibilizzazione nei confronti dei gover­ni e delle istituzioni internazionali islami­che. Certo, non possiamo vincolarli».

I firmatari appartengono a 43 nazioni e a diverse correnti dell’islam: sunniti, sciiti, ismailiti, sufi. È una garanzia suf­ficiente per esprimere il «comune sen­tire » di un mondo frazionato e privo di una gerarchia riconosciuta?
 «Non ricordo nella storia un altro docu­mento pubblico che, come ‘Una parola comune’, rappresenti il frutto di un in­tenso lavoro di convergenza tra sensibi­lità spirituali e formazioni teologiche del mondo musulmano. La qualità indiscu­tibile dei firmatari mette in risalto anche il peso dottrinale, teologico e intellet­tuale che anima il documento. E le fun­zioni istituzionali, accademiche e pub­bliche che i 138 sapienti musulmani ri­coprono sono indicative della rappre­sentatività di ognuno ma anche della ri­caduta costante che i contenuti e le con­seguenze di questo documento hanno nella nostra comunità. In questo senso, ciò che il documento può rappresenta­re per il futuro della società e del dialo­go è molto significativo anche se non mancheranno critiche sterili, pregiudi­zi da ribaltare e le strumentalizzazioni degli opportunisti di turno».

È innegabile però che la vostra inziativa non ha trovato grande eco nelle società e nei media islamici. «C’è un vuoto culturale che rallenta il ri­conoscimento del valore della ‘lettera dei 138′. Abbiamo davanti un percorso lungo e complesso che richiede una finezza di comunicazione e un lavoro di paziente maturazione. E comunque si sconta una certa ‘immaturità’ della società civile in molti Paesi, che va al di là della scarsa ri­levanza mediatica della nostra iniziativa. Ciò detto, sono convinto che dopo l’in­contro col Papa l’atten­zione salirà e verrà sempre più condivisa l’importanza di quanto stiamo facendo»

Dopo il discorso di Ra­tisbona, nel mondo i­slamico ci fu un diluvio di critiche, dovute an­che alla non conoscen­za delle parole effetti­vamente pronunciate o a una loro stru­mentalizzazione a fini politici. Ora, a di­stanza di un anno e mezzo, si può dire che quanto sta accadendo è il frutto dell’invito papale ad «allargare la ragione» e a rifiu­tare la violenza in nome della fede? «Decisamente sì. Un gruppo dei firmata­ri del ‘documento dei 138′ aveva già ma­nifestato la sua sintonia con la lettera a­perta indirizzata a Benedetto XVI dopo Ra­tisbona da un gruppo di musulmani sul rapporto fede-ragione. Sono convinto che proprio quella lezione e le manifestazioni di incomprensione popolare, in parte pro­vocate dai soliti fondamentalisti, costitui­scono un momento storico significativo per il conseguente svi­luppo del rapporto tra la Santa Sede e la na­scente rete dei sapien­ti musulmani interna­zionali. Lo studio del­la dottrina come base di approfondimento teologico e di ispira­zione concreta per o­rientare la fratellanza spirituale tra i credenti argina le deviazio­ni ideologiche, emotive, irrazionali e per­sonalistiche della fede. E favorirà, speria­mo, un autentico rinnovamento che sap­pia ricordare il patrimonio universale di scambi tra ebrei, cristiani e musulmani di altri tempi.
 «Penso che la libertà religiosa sia un bene da promuovere; ma su questo ci sono nel mondo islamico sensibilità diverse»

Avvenire, 29/02/2008