Dialogo non è una bella parola ma soprattutto un metodo. Lo ha ribadito ieri a Napoli il cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, lanciando una proposta: «Abbiamo una nostra road-map da seguire: fare delle religioni un nome di pace». Certo, il quadro internazionale si presenta spesso «cupo» e sono riapparsi pulizie etniche, lager, crimini che sembravano scongiurati dopo la Seconda guerra mondiale. Tuttavia c’è una prospettiva: «Una schiera di uomini e donne – sottolinea il porporato – che credono nella pace e alzano le mani verso il cielo. Lo fanno perché sono persuasi che le situazioni di violenza possono essere superate », contrapponendo un atteggiamento diverso. Le declinazioni del dialogo si collocano qui: «Il dialogo – spiega Tauran – è per tutti un pellegrinaggio e un rischio. Con il dialogo, infatti, accetto di mettermi in cammino per ascoltare situazioni diverse e metto me stesso a rischio davanti agli interrogativi degli altri ».
Ma in che modo le religioni possono promuovere il dialogo? Alla domanda stanno rispondendo laici e rappresentanti religiosi, con interventi autorevoli come il documento dei 138 intellettuali islamici che mostrano – sottolinea il professore Mehmet Pacaci dell’Università di Ankara – i passi avanti fatti dal mondo musulmano e ribadiscono come «il radicalismo di oggi sia un’interpretazione superficiale dello studio dell’islam». A proposito della lettera dei 138 saggi islamici: Tauran ha annunciato che la Santa Sede intende rispondere a quel testo che apre spazi di collaborazione fra cristianesimo e islam.
L’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti, rileva che la parola «dialogo» è diventata «una delle accezioni maggiormente soggette a usura: qualcuno la confonde addirittura con una semplice conversazione. È invece, soprattutto, confronto, interazione, capacità di ascoltare e di entrare nella visione dell’altro, disponibilità ad accoglierlo, senza semplicismi e superficialità».
Si pongono antidoti alla semplificazione, veicolo a quella violenza quotidiana che porta al pessimismo, «non solo quella della guerra – osserva Andrea Riccardi – che tanti nobilitano come strumento normale e necessario per risolvere i conflitti, ma anche la violenza criminale che colpisce tante città». La paura diventa politica e il disprezzo corrode i ponti di dialogo tra cristiani e musulmani costruiti nel passato. A Napoli è stata contestata la lettura univoca che passa sotto il titolo di «scontro di civiltà», perché «è come voler tornare indietro, è come voler cercare un motore unico della storia, come facevano le ideologie. È una lettura che porta a disprezzare l’altro, a credere che la guerra sia scritta nei suoi cromosomi».
Il cardinale: la Santa Sede intende rispondere alla lettera dei 138 saggi islamici Marchetto: la sfida è imparare ad ascoltare l’altro
Avvenire (23/10/2007).